22.09. LA CURVA DI PHILLIPS [DEMO]

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La curva di Phillips è un'analisi macroeconomica degli anni '50 che, basandosi sui dati empirici dell'economia inglese nel periodo 1861-1957, mette in relazione inversa il tasso d'inflazione dei prezzi e dei salari nominali con il tasso di disoccupazione.

Quanto più è basso il tasso di disoccupazione (piena occupazione) tanto più è alto il tasso di crescita dei prezzi e dei salari.

La realizzazione della curva di Phillips si basa sull'osservazione che le fasi di espansione economica sono caratterizzate da un incremento dei salari monetari.

La curva di Phillips ipotizza l'esistenza di un trade-off ( scambio ) tra il tasso di crescita dei prezzi ( inflazione ) e il tasso di disoccupazione.

Secondo Phillips, la politica economica non può perseguire contemporaneamente un obiettivo di riduzione dell'inflazione e della disoccupazione.

Il policy maker deve scegliere se adottare una politica economica espansiva per ridurre il tasso di disoccupazione, al costo di una maggiore inflazione dei prezzi, oppure adottare una politica economica restrittiva per ridurre il tasso di inflazione, al costo di una maggiore disoccupazione.

Il policy maker può soltanto scegliere una combinazione di disoccupazione e inflazione tra le coppie di valori ( u, p ) indicate sul piano della curva di Phillips.

Tuttavia, quando i lavoratori imparano a tener conto del tasso d’inflazione e ad adeguare i salari, si genera un cambiamento delle aspettative di inflazione che sposta progressivamente la curva di Phillips di breve periodo verso l’alto(quindi non c’è una relazione stabile tra disoccupazione e inflazione.)

Tutti questi spostamenti verso l’alto determinano una curva di Phillips verticale nel lungo periodo cioè una situazione in cui l’unica cosa che può accadere è un incremento del livello dei prezzi senza nessuna influenza sul tasso di disoccupazione effettivo, il quale nel tempo ritornerà sempre nel tempo al livello previsto dal NAIRU.

Quindi l’aumento dell’occupazione con inflazione che riduce i salari reali e/o con spesa pubblica che genera inflazione attraverso un eccesso di domanda, ha un successo temporaneo, finché i lavoratori non ottengono aumenti di salario che riportano la disoccupazione al livello precedente.

Perciò, secondo i monetaristi, tale comportamento genera la situazione di stagflazione, in cui non ci si riesce a spostare dal livello di disoccupazione alto e che comporta un rialzo continuo del livello dei prezzi causato dalle manovre di politica fiscale espansiva suggerite dai keynesiani.

Dovrebbero invece essere messe in campo, secondo i monetaristi, delle politiche che abbassano il livello di inflazione, come le politiche monetarie restrittive da parte della Banca Centrale e la costituzionalizzazione della legge di pareggio di bilancio in modo da evitare politiche fiscali espansive che possono condurre a un aumento dell’inflazione.

Negli anni ‘70 e ‘80 si diffondono dei lavori di economisti (come Sylos Labini, Tarantelli,McCallum, Bruno e Sachs) molto attenti all’impianto teorico keynesiano e alla diffusione delle tecniche econometriche più attuali e all’analisi delle istituzioni.

Questi economisti mettono in relazione l’inflazione con i contesti istituzionali che regolano il comportamento dei lavoratori, sostenendo che il contenimento dell’inflazione non dovrebbe avvenire a partire da una politica monetaria restrittiva, ma dovrebbe avvenire con opportune politiche di contenimento dei prezzi coordinate con opportune politiche dei redditi.